Le isole non trovate: l'indomabile anelito di Sacchini.
Le isole non trovate: l'indomabile anelito
di
Maurizio Sacchini
Il mito dell’isola è un topos sedimentato della letteratura e della cinematografia mondiale: molto frequentemente le trame di romanzi o film si svolgono su una porzione di terreno circondato dalle acque, con effetti legati alle peculiarità di un’esistenza in una condizione di estraniamento rispetto alla terraferma.
Thomas More, autore inglese del Cinquecento, tramite Itlodeo, proietta il lettore nell’idilliaco territorio insulare di Utopia, che ha un’organizzazione sociale perfetta, dove il principio di libertà è assicurato a tutti coloro che vi risiedono, in cui non esiste la privata proprietà. I suoi abitanti si dedicano per sei ore al giorno alle attività manuali, mentre trascorrono il tempo residuale della giornata studiando e riposando: una condizione auspicabile, un sogno rinascimentale di una società tutta proiettata verso la cultura, imperturbabile nella sua serenità. Ciò che viene introdotto è quindi un luogo perfetto, descritto con dovizia di particolari, tanto verosimile quanto impossibile. Si tratta infatti di uno spazio inesistente, una località de facto irraggiungibile nella sua idealizzazione.
Rimanendo nell’ambito della letteratura anglosassone, James Matthew Barrie presenta l’isola con una forte componente magica e avventurosa, in cui è possibile fare esperienza di cose extra-ordinarie, non senza una connotazione negativa: Neverland è infatti terra di perdizione, come suggerisce già il nome assegnato ai compagni di Peter Pan, i lost boys (ragazzi perduti), selvaggia e misteriosa, con un sostrato ideologico derivante da romanzi di avventura come The Coral Island (1858) di R. M. Ballantyne e Treasure Island (1883) di R. L. Stevenson: un microcosmo animato da persone in combutta tra di loro per il controllo del territorio.
In entrambe le opere menzionate i relativi protagonisti appaiono radicati e operanti nel contesto narrativo di appartenenza, seppur immaginario. Trasferendo i termini di paragone dal campo letterario a quello artistico, è interessante notare come a Maurizio Sacchini sembri invece negato un luogo d’azione, seppur egli lo ricerchi alacremente, con una inquietudine di fondo che non lo abbandona mai.
In tal senso, e sue isole non trovate sono una mèta non raggiunta, forse non raggiungibile: attraverso una simbologia ricorrente, che va a costituire il suo corollario iconologico e iconografico, l’astante avverte il trascorrere il tempo, il mutamento: alle concentricità di un cielo diurno si sostituiscono infatti quelle notturne, attraverso raffinate tonalità, diversamente illuminate. Spiccano la piramide e le figure geometriche, già ampiamente usate alchemicamente da Gino De Dominicis, geograficamente vicino all’autore in questione. Come l’arista marchigiano, anche il Maestro qui analizzato induce alla riflessione e alla contemplazione, seppur con la seguente differenza: se il primo muove all’azione nel tentativo ideale di arrestare l’irreversibilità del tempo attraverso la pratica artistica, nel repertorio del secondo è riscontrabile una evidente malinconia per l’impossibile raggiungimento di una realtà misteriosa cui rimanda l’umana esistenza.
Il Re di Spagna fece vela
cercando l'isola incantata,
però quell'isola non c'era,
e mai nessuno l'ha trovata.
Sprovvisto di coordinate spazio-temporali, il fruitore si avventura nel mondo interiore del pittore. Corredano le sue opere lacerti di materiale strettamente connesso al suo vissuto: la comune juta impiegata per la realizzazione di sacchi di uso alimentare è quella che vedeva nelle campagne della sua infanzia, così come la breccia che costituisce la battigia delle spiagge delle sue isole. I frammenti di specchio, oltre ad assolvere una funzione estetica, con tutti i giochi di rifrazione da esso derivante, alla ricerca di un maggiore coinvolgimento dell’astante, si caricano di significato nel loro essere passaggio tra il mondo della realtà e il mondo immaginario, secondo una contrapposizione tra l’occhio e lo sguardo, tra il vedere e il comprendere, tra l’esteriorità e l’interiorità.
Come avviene in Pistoletto e Anish Kapoor, subentra un meccanismo disorientante di moltiplicazione e scomposizione. In tale gioco lo spettatore viene coinvolto come co-soggetto, ma anche come parte attiva del fare creativo.
Raffinato e calibrato è l’equilibrio compositivo che presiede opere di siffatto concepimento: a sagome immobili, come la piramide, eloquente nel suo significato di immutabilità, fanno da contraltare palloncini e aquiloni, spesso squarciati, arsi, attraversati con prorompenza da elementi geometrici: un desiderio di libertà infranto.
Talvolta spunta una palma, dato iconografico strettamente legata all’idea di isola: ponte di collegamento tra terreno e ultraterreno (per via della sua altezza), essa è altresì simbolo di vita e di rinascita, per via delle sue capacità di sviluppo e crescita in condizioni di avversità.
Arricchiscono ulteriormente la composizione puntali diversamente orientati, quasi a voler indicare una direzione, talvolta in contrasto rispetto alle punte delle piramidi, talvolta concordi con il senso dei vertici di quelle
I piani divergenti intersecantisi tra di loro rendono tangibile un latente dinamismo, alla luce del quale la superficie pittorica diventa un serafico campo di scontri, scontri di linee come di energie. Nel loro silenzio, gli assolati paesaggi geometrici realizzati dal Maestro, portavoce di messaggi incomunicabili a parole, gridano una forte volontà di rottura .Ivan Caccavale Critico, Storico e Curatore d'arte.
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